IL FASCINO DISCRETO DELLE ULTIME CENE
“L’ultima cena”, nell’immaginario collettivo, riporta alla memoria quasi in automatico, il noto cenacolo di Leonardo da Vinci e, per molti, l’immediato collegamento con il pur intrigante mistero che Dan Brown ha contribuito ad alimentare. Son certo però di non sbagliare se affermo che di questo specifico argomento abbiamo un nutrito patrimonio artistico che andrebbe maggiormente valorizzato anche da un punto di vista strettamente didattico.
La rappresentazione in oggetto affonda le radici in una storia assai affascinante che parte addirittura dall’anno 59 con la prima lettera ai corinzi di Paolo di Tarso in cui si narra la vicenda dell’Ultima Cena. Dobbiamo innanzitutto considerare i due “momenti” rappresentati dall’iconografia classica bizantina e romana, quella relativa al momento di rabbia e stupore dei commensali nell’istante immediatamente successivo alla rivelazione del tradimento di Giuda e quello relativo allo spezzare del pane.
Una rappresentazione sacra e altamente simbolica che appartiene alla necessità primaria di ricondurre l’atmosfera conviviale della cena in un aurea austera e sobria, consona alle regole benedettine che prevedevano il silenzio durante i pasti e le letture sacre, una sorta di induzione alla meditazione che avveniva anche attraverso gli affreschi nel refettorio.
In questo contesto ritroviamo rappresentate sia le Ultime Cene che la crocefissione, spesso associate in un dialogo ben studiato, nello stesso luogo, come accade ad esempio nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano.
Come non riconoscere l’autentica rivoluzione apportata da Giotto con l’Ultima Cena (1305) che ritroviamo nella splendida Cappella degli Scrovegni. Un’opera straordinaria, la cui lettura meriterebbe un lungo studio. Il punto di vista rialzato, lo studio della spazialità dell’opera, l’espressività degli apostoli, i dettagli delle aureole consentono il riconoscimento dei commensali e l’apparire dell’arte decorativa cosmatesca (che ritroviamo ancor più marcata nell’opera conservata nell’Alte Pinacoteke di Monaco), rendono l’opera una meraviglia rivoluzionaria che segna l’inizio di un nuovo capitolo della storia dell’arte.
Da qui il viaggio passa necessariamente dalla maestria di Taddeo Gaddi la cui opera lascia letteralmente senza fiato per bellezza e ricchezza di particolari e contenuti. Questa Ultima Cena del 1330 è sovrastata da una imponente crocefissione che si può leggere anche come albero della vita, interpretazione molto interessante e strettamente legata al Lignum Vitae di San Bonaventura. Il concetto espresso appartiene alla volontà dell’artista di dimostrare che a sorgente di vita non è più nella natura ma risiede ora nel figlio di Dio, secondo l’iconografia del tempo. A fronte di ciò l’albero della vita è la stessa Croce di Cristo attorno alla quale si notano le Pie donne con la Vergine Maria e San Giovanni da un lato, Sant’Antonio, San Ludovico e San Domenico di Guzman dall’altro, San Francesco intento ad abbracciare la croce e a fianco lo stesso San Bonaventura da Bagnoregio intento a scrivere il Lignum Vitae. L’opera offre lo spunto per allargare la visione anche sulla rappresentazione dell’Albero della vita la cui iconografia andrebbe studiata non più dal punto di vista solo cronologico ma attraverso le opere che giungono da più culture, compresa l’arte islamica del 16° secolo. Taddeo Gaddi fu per ventiquattro anni stretto e fidato collaboratore di Giotto, alla morte del maestro divenne il più autorevole artista di Firenze lavorando ancora per oltre trent’anni. Agnolo, fratello di Taddeo, lavorò moltissimo ed ebbe nella sua bottega anche il giovane Lorenzo Monaco ma la critica più autorevole l’ha stroncato senza alcun ritegno: “Monotono, senza vita, prolisso narratore, reso popolare dalla mancanza di profondità psicologica, dalla inanità di espressione plastica e dalla superficiale vaghezza di colore” Carlo Giulio Argan.
La Storia dell’arte ci presenta ulteriori straordinarie interpretazioni dell’Ultima Cena come quella firmata da Andrea del Castagno, Domenico Ghirlandaio, il fiammingo Dierich Bouts e Cosimo Rosselli che ritroviamo all’interno della Cappella Sistina. Un’ultima considerazione deriva proprio da questo aspetto legato alla Cappella il cui nome è legato al Papa Sisto IV della Rovere. Viene da riflettere su quanto ha inciso nella storia dell’arte, in particolare nel Rinascimento, la protezione che la Chiesa aveva verso alcuni artisti, garantendo la nascita di opere d’arte che ancora oggi tutto il mondo ci invidia. Un’epoca molto particolare in questo contesto, in cui se da un lato gli artisti venivano chiamati a Firenze e Roma come autentici ambasciatori di bellezza e armonia, con una visione rivolta al primato culturale e artistico, dall’altro lato era proprio il Papa ad essere un pessimo esempio di moralità. Si pensi ad Alessandro VI (Rodrigo Borgia) il quale governò all’insegna della lussuria e della corruzione, ebbe quattro figli illegittimi, amò Vannozza Cattanei e pubblicamente Giulia Fernese chiamata dal popolo addirittura “la sposa di Cristo”. Seguito da Papa Pio III il cui soglio pontificio durò misteriosamente solo 26 giorni per lasciar posto a Papa Giulio II (della Rovere come Sisto IV). Questi non volle abitare le stanze dell’odiato predecessore Alessandro VI e per questo motivo fece affrescare la straordinaria Stanza delle Segnature dove oggi ammiriamo ad esempio la “Scuola di Atene” di Raffaello, nonostante ciò, costui fu un pessimo esempio cristiano il cui impietoso ritratto rimasto nella storia è quello dell’Imperatore Massimiliano 1° d’Asburgo che di lui scrisse “E’ un Papa ubriacone, maligno e immorale”, definito anche “Papa guerriero e terribile”.
Nonostante tutto ciò oggi possiamo ammirare dipinti che restano nel cuore per intensità espressiva, simbolica e contenutistica, passando da Andrea del Sarto a Gaudenzio Ferrari fino a giungere alla “Cena in casa di Levi” del 1573 di Paolo Caliari, il Veronese, la cui storia si interfaccia con uno straordinario interrogatorio inquisitore al quale l’artista risponde difendendo la propria necessità di libertà espressiva e affermando:”Nui pittori si pigliamo la licentia che si pigliano i poeti et i matti..”.
Dal 2016 ho il piacere e l’onore di presentare alcune conferenze tematiche che attraversano la storia dell’arte, tra queste le “Ultime Cene” è forse il passaggio più corposo, completo ed emozionante anche per il mio personale percorso professionale.
Alberto Moioli
sintesi tratta da “Le ultime Cene- da Giotto ai nostri giorni, un viaggio nella storia dell’arte”
presentato all’Uni3 di Arcore Auditorium Don Oldani
Rispondi